Sui Referendum (12-13/06/2011)

Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne? Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del Signore sarà la tua retroguardia.  Allora chiamerai e il Signore ti risponderà; griderai, ed egli dirà: Eccomi! Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; se tu supplisci ai bisogni dell’affamato, e sazi l’afflitto, la tua luce spunterà nelle tenebre e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; il Signore ti guiderà sempre, ti sazierà nei luoghi aridi, darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai. (Is 58:6-11)

Ricordati, Signore, di quello che ci è avvenuto! Guarda e vedi la nostra infamia! La nostra eredità è passata agli stranieri, le nostre case, agli estranei. Noi siamo diventati orfani, senza padre, le nostre madri sono come vedove. Noi beviamo la nostra acqua dietro pagamento, la nostra legna noi la compriamo. (Lam 5:1-4)

Noi che traiamo la nostra fede e la nostra certezza dalla Sacra Scrittura, non possiamo che essere familiari con il concetto dell’acqua. La Bibbia che noi leggiamo, infatti, è la storia di un popolo che ha sempre combattuto le sue battaglie intorno all’acqua. Un popolo nomade, nel deserto, non poteva che vedere nell’acqua la fonte di vita, la sorgente che da’ vita. Per questa sua natura, l’acqua porta con se parte dell’immagine di Dio.
Se quindi l’acqua porta con sé un po’ dell’immagine di Dio, all’acqua si accompagnano due delle fondamentali caratteristiche divine: la giustizia e la libertà.
Il testo del profeta Isaia che ha aperto questo incontro ci ha detto che la giustizia di Dio non si conclude all’interno dei nostri gesti sacri, ma richiede un impegno giornaliero, un impegno che va oltre la porta di casa nostra, che chiede forze ulteriori, che richiede che i nostri beni personali siano messi a disposizione della giustizia di Dio. È il nostro pane, quello che deve saziare l’affamato, la nostra acqua che lo deve dissetare. Se questo verrà fatto, il Signore stesso risponderà con la sua sazietà ci ricolmerà dei suoi beni ci renderà “come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai”. Se noi offriamo la nostra acqua, Dio ci renderà una sorgente inesauribile.
Questa promessa ci arriva dal profeta Isaia attraverso le stesse parole del nostro comune Signore Gesù Cristo: l’acqua viva non avrà mai fine, e come la donna samaritana noi non possiamo che rispondere: “dacci quest’acqua, affinché non abbia più sete”.
Ma l’acqua che Dio ci dà liberamente non può essere messa sotto pagamento. Come abbiamo detto, solo se impegniamo del nostro, il Signore ci ricolmerà del suo. Eppure in questo periodo ci ritroviamo a decidere su alcune leggi che prevedono che l’acqua, così come sgorga dalla sorgente debba essere messa all’asta, contesa da chi la vuole gestire, come fosse una preda di caccia. All’impegno per dare del nostro, viene sostituita la obbligatorietà di pagare per ciò che è nostro, obbligatorietà perché non ci saranno enti pubblici in grado di offrire condizioni migliori di enti privati.
Ma questa è l’anima del commercio, no? Se gli enti privati possono spendere meno, anche noi spenderemo meno? No. Non lo dico io, ma una legge che il secondo quesito referendario vuole abrogare, la quale inserisce nella gestione dell’acqua il concetto di “adeguata remunerazione del capitale investito”. Cosa significa? Significa che chi ha la gestione dell’acqua, deve guadagnarci, è costretto per legge. Ora, gli acquedotti sono in perdita costante a causa di interruzioni, perdite, furti d’acqua. Se l’ente deve tenere d’occhio tutte queste cose, quindi spenderci soldi, ma ci deve anche guadagnare, dovrà per forza alzare i prezzi a dismisura, perché pareggiare i conti non sarà più abbastanza!
Nella nostra vita, dunque, si ripropone la stessa situazione biblica, l’acqua si fa specchio di giustizia e libertà. Eccoci dunque al passo delle Lamentazioni che abbiamo letto poco fa. Nella dura esperienza dell’esilio, Israele grida a Dio la propria situazione, non solo chiede sollievo spirituale, ma chiede giustizia materiale. Chiede a Dio di intervenire contro coloro che si sono impossessati di tutto e ora lo rivendono ai legittimi proprietari come fossero clienti.
L’acqua privata non è solo questione di giustizia, di equità non rispettata, di differenza abissale tra chi compra e chi vende, l’acqua privata è questione di libertà, perché non si può dire veramente libero, chi paga per ciò che è suo.
Equità, giustizia, libertà, liberazione. Ecco di cosa parla la Bibbia, quando parla d’acqua. E non solo d’acqua vogliamo parlare, questa sera, ma di altre cose nostre che vogliono venderci come fossero proprietà di qualcun altro. Per produrre l’energia che serve alle nostre case, alle nostre famiglie, vogliono venderci una tecnologia sorpassata, un pericolo sopito, ma mai domato, vogliono farci bere acqua e assenzio, direbbe la Bibbia, assorbire radiazioni, spacciandocela per acqua pura, per energia sostenibile, rinnovabile, pulita. Nessuno mette in dubbio il potere della tecnologia nucleare, ma se la Scrittura ci insegna qualcosa, è che, riguardo alle questioni umane, il potere è l’ultima cosa che dovremmo considerare, perché a Dio è stato dato il potere su ogni cosa. Noi dovremmo stare attenti al potere, al comando che Dio ci ha dato, ovvero di essere custodi di questa terra, non padroni, di dimorarvi e crescerla come la nostra casa, non schiavizzarla come un nemico vinto. Il nucleare non ci ha convinto una volta, perché dovremmo metterlo di nuovo in discussione? Ora che altre nazioni come Francia e Germania si dichiarano non così sicure di voler continuare l’avventura nucleare, ci gettiamo noi nella mischia, a riprenderci qualcosa che non fu mai nostro? Giustizia ed equità, libertà e liberazione ci guidino, ci guidino verso soluzioni energetiche uguali per tutti, non così pericolose, che rendano gli uomini liberi e non schiavi, sani e non malati. Come il Signore chiede del nostro per dissetare gli assetati, anche in campo energetico dovremmo imparare a dare del nostro, a sprecare di meno, consumare di meno, essere meno attenti al nostro lusso, e più attenti ai bisogni degli altri, si cammina verso un mondo migliore anche spegnendo la luce, cambiando le lampadine, utilizzando fonti alternative.
L’acqua porta con sé l’immagine di Dio, che è giustizia e libertà, equità nel trattamento di ogni cittadino. Così come rifiutiamo una fonte energetica che rafforza la nostra arroganza, invece che la nostra umiltà, che ci fortifica nello spreco, invece che nella responsabilità, così chiamiamo a responsabilità chi ci governa, li chiamiamo a rendere conto delle loro azioni, presenti e pregresse, nella sicurezza che la nostra giustizia imperfetta, assolutamente inadeguata alla giustizia di Dio, è comunque espressione del buon senso, della buona volontà e delle migliori capacità intellettive di tutta la nazione. Così come i politici e i governanti invitano noi a fidarci di loro, noi invitiamo loro a fidarsi del sistema che abbiamo costruito e che manteniamo con responsabilità, affinché tutti siano giudicati equamente, nel rispetto delle loro libertà, secondo il loro comportamento.
L’acqua, che riflette della giustizia e della libertà di Dio, non è solo l’acqua che noi consumiamo, libera e gratuita, non è solo l’acqua del nostro impegno e della nostra responsabilità per un creato salvaguardato e una giustizia equa, ma l’acqua è anche segno dello Spirito di Dio, Spirito che non ha cessato di muoversi tra di noi, Spirito che continuamente, come l’acqua, viene profuso dentro di noi, che ci fortifica e ci permette di essere fonte per gli altri. L’acqua che noi possiamo dare è frutto e segno dello Spirito di Dio, fonte inesauribile, pronta per noi, a patto che la chiediamo. Come dice il libro dell’Apocalisse: A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita.
Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita. (Apo 21:6b, 22:17b)

Ohiboh!

Pubblicato la prima volta il 01/12/2007

Il guaio dell’esser cristiani, è che a volte bisogna concordare.
Già, mai si sarebbe detto possibile, ma con buona parte della nuova lettera circolare di Benedetto XVI non si può che concordare.

Sin dal principio, il lettore cristiano non può che trovarsi concorde con l’autore nell’affermare con Paolo che “siamo stati salvati in speranza”, cosicché la lettura dell’enciclica si fa compimento di ecumenismo, parola in cui protestanti, ortodossi e cattolici possono trovarsi insieme, nella speranza che Cristo dona.

Anzi, il lettore evangelico si trova frastornato nell’osservare come quel “fede è certezza di cose che si sperano”, tanto caro alla nostra testimonianza cristiana è citato da Benedetto XVI come punto di possibile incontro; ci si rallegra nel venire a conoscenza che in quella “hypostasis” cattolici e protestanti possano concordare che, qualunque sia l’interpretazione finale, la fede sia uno “stare”, una presenza viva, non un’idea lontana.

La vita eterna, che segue la fede dappresso, è di certo un punto caldo dell’agenda evangelica, sospeso tra chi la proclama a spron battuto e chi la vorrebbe sottrarre alla speculazione umana, e lasciarla all’agire di Dio, ma anche in questo caso, si legge con piacere che la chiamata alla “vera vita” è chiamata alla pienezza di vita, che in Cristo riempie l’esistenza tutta.

Tutto sommato, e qui la sorpresa, soprattutto per un battista, si fa grande, anche la sezione sull’individualismo è condivisibile, sebbene alcune stranezze possano essere notate quando, per il sostegno del mondo, si cita l’utilità del monastero e si tace la fondamentale necessità della vita cristiana nella comunità locale, terreno fecondo sia per il germogliare della fede che per il lavoro cristiano.
A quegli evangelici che fondano la propria testimonianza sulla responsabilità personale, poi, questo tentativo di esautorare l’individuo dalla pienezza della relazione con Cristo risulta lievemente cacofonico, ma si perdonano all’autore alcune dissonanze, quando il discorso si vuole articolare intorno ad un tema così centrale come la speranza cristiana.

Noto, a livello del tutto personale, lo ammetto, le prime note dolenti quando si comincia a parlare del rapporto tra fede e ragione.
A mio modesto parere, Benedetto XVI troppo spesso, nei suoi appelli alla ragione e alla fede, fa sfoggio di doti di illusionismo, per assumere, con frasi accuratamente calibrate, conclusioni che trovo a volte sconcertanti.
Per esempio, nel paragrafo 23, l’enciclica afferma:

“Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.”

Ora, difficilmente qualcuno potrebbe dissentire, ma letto attentamente, il passaggio pone le basi per una interdipendenza tra ragione e fede che difficilmente potrei accettare a cuor leggero. Dato che, come si è detto, la fede è comunitaria, se ne deduce che la ragione individuale ha bisogno di detta comunità per “realizzare la propria natura”. Ora, in un contesto assembleare, tipico della Riforma, l’affermazione è non solo da approvare, ma da incidere ad eterna memoria, ma in caso di una gerarchia solida, il rischio che la fede della comunità sia interpretata dalla ragione della gerarchia a danno della ragione dell’individuo si fa, a mio parere, troppo palpabile perché si possa liquidare senza menzione.
Ecco dunque che la sacrosanta critica della fede individualistica tende insopportabilmente alla critica della fede individuale, che è base per quel sacerdozio universale dei credenti che, pur se vissuto inderogabilmente in una comunità, non può che essere rivendicato dagli evangelici con voce ferma e squillante.

Benedetto XVI poi, non finisce di stupire con accenni alla missione che entusiasmerebbero ogni evangelico, a conclusione del discorso sul Giudizio, l’enciclica proclama:

“Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.” (49)

Parole degne di un William Carey!
Purtroppo la Scrittura ci ammonisce che nessuno si salva da solo, e la stessa enciclica ricorda come il giudizio sia la divina unione di giustizia e grazia. Questa visione della missione, così saldamente legata all’intercessione, e quindi alla ragione di fede contro la ragion di stato, non può che lasciare gli evangelici a dir poco perplessi, e il sottoscritto amareggiato.

L’amarezza si muta in sconfitta, la forza in debolezza, la concordia in rassegnato scorno quando l’enciclica viene a trattare l’ultimo suo punto: “Maria stella della speranza”. L’apologia e la polemica vanno avanti da secoli, tutto sommato un cammino di reciproca comprensione è iniziato, e non voglio essere io a farlo inciampare, ma non posso trascurare, nella mia analisi, proposizioni come questa:

“Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata.”

L’emblema di queste persone altri non sarebbe che Maria ultraterrena, superumana, togliendo, mi spiace dirlo, salutare spazio al Cristo.
Anche in questo la dottrina evangelica non può chinare il capo, ” Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” dice la Prima Timoteo.

Se anche fosse vero che la luce di Dio sia lontana, egli stesso è sceso a noi e si è fatto vicino. Se anche fosse vero che abbiamo bisogno di persone che ci donino luce, abbiamo una “luce per noi” nella persona di Cristo Vera Luce di Dio e Vero Uomo per noi.
Se è poi la relazione umana che ci fa saldi, allora è la comunità in cui siamo sostenuti e sosteniamo, mediante la luce che Cristo non ha mai fatto mancare.

Il guaio dell’esser cristiani, è che a volte bisogna concordare.
Già, mai si sarebbe detto possibile, ma con buona parte della nuova lettera circolare di Benedetto XVI non si può che concordare.

Sin dal principio, il lettore cristiano non può che trovarsi concorde con l’autore nell’affermare con Paolo che “siamo stati salvati in speranza”, cosicché la lettura dell’enciclica si fa compimento di ecumenismo, parola in cui protestanti, ortodossi e cattolici possono trovarsi insieme, nella speranza che Cristo dona.

Anzi, il lettore evangelico si trova frastornato nell’osservare come quel “fede è certezza di cose che si sperano”, tanto caro alla nostra testimonianza cristiana è citato da Benedetto XVI come punto di possibile incontro; ci si rallegra nel venire a conoscenza che in quella “hypostasis” cattolici e protestanti possano concordare che, qualunque sia l’interpretazione finale, la fede sia uno “stare”, una presenza viva, non un’idea lontana.

La vita eterna, che segue la fede dappresso, è di certo un punto caldo dell’agenda evangelica, sospeso tra chi la proclama a spron battuto e chi la vorrebbe sottrarre alla speculazione umana, e lasciarla all’agire di Dio, ma anche in questo caso, si legge con piacere che la chiamata alla “vera vita” è chiamata alla pienezza di vita, che in Cristo riempie l’esistenza tutta.

Tutto sommato, e qui la sorpresa, soprattutto per un battista, si fa grande, anche la sezione sull’individualismo è condivisibile, sebbene alcune stranezze possano essere notate quando, per il sostegno del mondo, si cita l’utilità del monastero e si tace la fondamentale necessità della vita cristiana nella comunità locale, terreno fecondo sia per il germogliare della fede che per il lavoro cristiano.
A quegli evangelici che fondano la propria testimonianza sulla responsabilità personale, poi, questo tentativo di esautorare l’individuo dalla pienezza della relazione con Cristo risulta lievemente cacofonico, ma si perdonano all’autore alcune dissonanze, quando il discorso si vuole articolare intorno ad un tema così centrale come la speranza cristiana.

Noto, a livello del tutto personale, lo ammetto, le prime note dolenti quando si comincia a parlare del rapporto tra fede e ragione.
A mio modesto parere, Benedetto XVI troppo spesso, nei suoi appelli alla ragione e alla fede, fa sfoggio di doti di illusionismo, per assumere, con frasi accuratamente calibrate, conclusioni che trovo a volte sconcertanti.
Per esempio, nel paragrafo 23, l’enciclica afferma:

“Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.”

Ora, difficilmente qualcuno potrebbe dissentire, ma letto attentamente, il passaggio pone le basi per una interdipendenza tra ragione e fede che difficilmente potrei accettare a cuor leggero. Dato che, come si è detto, la fede è comunitaria, se ne deduce che la ragione individuale ha bisogno di detta comunità per “realizzare la propria natura”. Ora, in un contesto assembleare, tipico della Riforma, l’affermazione è non solo da approvare, ma da incidere ad eterna memoria, ma in caso di una gerarchia solida, il rischio che la fede della comunità sia interpretata dalla ragione della gerarchia a danno della ragione dell’individuo si fa, a mio parere, troppo palpabile perché si possa liquidare senza menzione.
Ecco dunque che la sacrosanta critica della fede individualistica tende insopportabilmente alla critica della fede individuale, che è base per quel sacerdozio universale dei credenti che, pur se vissuto inderogabilmente in una comunità, non può che essere rivendicato dagli evangelici con voce ferma e squillante.

Benedetto XVI poi, non finisce di stupire con accenni alla missione che entusiasmerebbero ogni evangelico, a conclusione del discorso sul Giudizio, l’enciclica proclama:

“Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.” (49)

Parole degne di un William Carey!
Purtroppo la Scrittura ci ammonisce che nessuno si salva da solo, e la stessa enciclica ricorda come il giudizio sia la divina unione di giustizia e grazia. Questa visione della missione, così saldamente legata all’intercessione, e quindi alla ragione di fede contro la ragion di stato, non può che lasciare gli evangelici a dir poco perplessi, e il sottoscritto amareggiato.

L’amarezza si muta in sconfitta, la forza in debolezza, la concordia in rassegnato scorno quando l’enciclica viene a trattare l’ultimo suo punto: “Maria stella della speranza”. L’apologia e la polemica vanno avanti da secoli, tutto sommato un cammino di reciproca comprensione è iniziato, e non voglio essere io a farlo inciampare, ma non posso trascurare, nella mia analisi, proposizioni come questa:

“Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata.”

L’emblema di queste persone altri non sarebbe che Maria ultraterrena, superumana, togliendo, mi spiace dirlo, salutare spazio al Cristo.
Anche in questo la dottrina evangelica non può chinare il capo, ” Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” dice la Prima Timoteo.

Se anche fosse vero che la luce di Dio sia lontana, egli stesso è sceso a noi e si è fatto vicino. Se anche fosse vero che abbiamo bisogno di persone che ci donino luce, abbiamo una “luce per noi” nella persona di Cristo Vera Luce di Dio e Vero Uomo per noi.
Se è poi la relazione umana che ci fa saldi, allora è la comunità in cui siamo sostenuti e sosteniamo, mediante la luce che Cristo non ha mai fatto mancare.

Trentino: la Lega vuole una Bibbia in ogni casa

“Un’interrogazione presentata da Alessandro Savoi, capogruppo leghista alla Provincia di Trento, chiede che la Provincia Autonoma doni una copia della Bibbia a tutte le famiglie. La proposta rientra nel quadro di una serie di iniziative volte a “tutelare e valorizzare i simboli delle festività religiose cattoliche”. Il blog Metilparaben si è domandato: “a quando il battesimo obbligatorio?” Un sondaggio online lanciato dal quotidiano L’Adige mostra per ora una prevalenza di pareri contrari.”
– sito UAAR

Quando la crassa ignoranza e l’ironia della sorte si incontrano, l’importante rischia di rimanere invisibile agli occhi…

A proposito di difendere la nostra cultura, una ridondante premessa storica

Fu solo con il protestantesimo che nacque l’esigenza di avere una Bibbia per tutti, che tutti potessero (dovessero) avere perchè potessero (dovessero) leggere. Fu Lutero il primo a tradurre la Bibbia nella lingua del volgo, seguito a ruota da Giacomo che, sebbene di tendenze cripto-cattoliche, fece il più grande regalo agli evangelici di ogni tempo, la King James Version.

In Italia la prima Bibbia venne stampata negli anni della Repubblica Romana e susseguentemente distrutta in tutte tranne 3 copie, eppure la Bibbia in Italiano esiste dal 1607, ad opera di Giovanni Diodati, ginevrino figlio di emigrati lucchesi per causa di religione.

La Bibbia c’era in Italiano, come mai nessuno la stampava, o la vendeva, o la comprava?
Semplice, perchè la Chiesa Cattolica Apostolica Romana lo impediva, avendo fatto della lotta alla “Bibbia in ogni casa” uno dei cardini della Controriforma. Avere una copia della Bibbia in qualsivoglia lingua era bastante per una condanna per eresia, che magari non finiva in roghi (a parte la Bibbia stessa, ovviamente), ma di certo non era cosa da prendersi sottogamba, prima del 1848…

Il Concilio di Trento vietò la Bibbia nelle case, la Lega di Trento ce le rimette.

Detto questo, ha un che di ironico, la proposta dei peggiori bigotti immorali clericalisti anticlericali di mettere una Bibbia in ogni casa. A me piace.

Lo ripeto: a me piace.

Vorrei una Bibbia in ogni casa, anche solo quelle dei cristianissimi cattolicissimi trentini.

Una Bibbia in ogni casa! Lo grida ogni mia goccia di sangue, ogni spirito, ogni fantasma, ogni anima tormentata, ogni mio padre e madre nella fede e della fede.

Una Bibbia in ogni casa, a saperlo, a Diodati si fermerebbe il cuore dalla felicità.

Una Bibbia in ogni casa, ma ad una e una sola condizione. Bisogna leggerla, quella Bibbia, e, se ci si dice cristianissimi e cattolicissimi, bisogna che sia la Bibba a guidare i cuori, e non i cuori la Bibbia.

Bisogna leggerla, capirla, farsi interrogare e cercare balbettanti delle risposte.

Trentini, accettatela, quella Bibbia.
Se non siete cristiani, io sono pronto a leggerla con voi, a capirla con voi, a giudicarla con voi. Sono pronto a ricevere per lei le critiche, e a ragionarci insieme.

Ma se siete cristiani, beh, la sola lettura dovrebbe farvi pensare abbastanza e abbastanza a lungo, da non poter più architettare scempiaggini a carico di chi è più debole di voi per molto, molto tempo…

Ogni tanto..

è necessario affidarsi alle parole di altri, quando tu non avresti saputo rispondere in maniera più chiara…

Tratto dalla rubrica “Dialoghi con Paolo Ricca” del settimanale Riforma del 26 gennaio 2007

Il peccato e l’omosessualità

Che cosa è oggi peccato?
Mi chiedo spesso che cosa sia oggi «peccato». I pastori del passato ci hanno insegnato chiaramente che cosa era un peccato. Oggi c’è un po’ di confusione, e comunque nessuno teme il giudizio. Sembra quasi che quello che era considerato «peccato», oggi non lo sia più. Per esempio, leggo in Levitico 20, 13: «Se uno ha con un uomo relazioni sessuali (…) tutti e due hanno commesso una cosa abominevole». È così? Se è chiaro il «non rubare», anche questa valutazione è chiara. Oppure no? lo credo che i valori cambiano perché Satana si dà un gran daffare. Ma quello che Dio diceva al suo popolo tremila anni fa, vale anche oggi. Oppure la morale cambia a seconda del vento, e la religione si adegua per paura di perdere terreno? lo credo che le scelte etiche debbano essere limpide anche in campo sessuale, e, per il credente, ispirate all’insegnamento biblico. Adattare la Bibbia alle nostre esigenze vuol dire accantonare la parola di Dio. Sinceramente, Lei come la vede?
Lettera firmata- Genova

Anch’io, come Lei, cara lettrice, mi chiedo spesso che cosa sia oggi peccato.

Stabilirlo sembra la cosa più semplice del mondo, invece è una delle più difficili. Sa perché? Per due ragioni principali. La prima è che molti comportamenti che, un tempo, secondo la morale corrente (condivisa però anche, a torto o a ragione, da tanti cristiani), erano considerati peccati (ad esempio: ballare), oggi non lo sono più, non solo perché i costumi e le mentalità sono cambiate, ma anche perché ci si è resi conto dell’insensatezza di tanti divieti del passato. La prima ragione è dunque questa: tanti peccati semplicemente non erano peccati. La seconda ragione è più sottile, ed è questa: una delle caratteristiche del peccato è la capacità di travestirsi, di camuffarsi nel suo contrario. Succede allora che un peccato, addirittura della peggior specie, assume le sembianze di una virtù, e quindi viene lodato anziché essere censurato; e inversamente un’azione esteriormente corretta e persino giusta (pensi al Fariseo della parabola!) si rivela, a uno sguardo non superficiale, un vero e grave peccato. Il peccato, insomma, ci inganna facilmente, per cui ci accade di chiamare peccato ciò che peccato non è, e di non chiamare peccato ciò che invece peccato è. Gesù ha più volte richiamato l’attenzione dei suoi interlocutori su questo fatto. Ad esempio in questi termini: «Guai a voi, scribi e Farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta e dell’aneto e del comino, e trascurate le cose più gravi della legge: la giustizia, e la misericordia, e la fede» (Matteo 23, 23). Oppure con quest’altra parola, rivolta a coloro che ritenevano peccato mangiare certi cibi: «Non è quello che entra nella bocca che contamina l’uomo; ma quel che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l’uomo» (Matteo 15, 11).

Che cos’è peccato? Bella domanda e grosso problema, per niente facile da risolvere. Conosco delle chiese nelle quali è peccato (grave) per una donna mettersi il rossetto (perché nella Bibbia sta scritto che la donna non deve abbellirsi né avere altro ornamento che le buone opere: I Timoteo 2, 9-10);è peccato (grave) portare i pantaloni (perché sta scritto nella Bibbia: «La donna non si vestirà da uomo, né l’uomo si vestirà da donna; poiché chiunque fa tali tose è in abominio all’Eterno; il tuo Dio» -Deuteronomio 22, 5: andatelo a dire agli Scozzesi, con i loro gonnellini!); è peccato (grave) in quelle chiese, sempre per le donne, partecipare al culto senza velo (perché sta scritto nella Bibbia: la donna «si metta un velo» I Corinzi 11, 6). Secondo una certa visione della fede, della Bibbia e della chiesa, questi sono tutti peccati (gravi). Per me non lo sono affatto, e forse neppure per Lei, cara lettrice, anche se sono inequivocabilmente «fondati» sulla Bibbia. Credo sinceramente (Lei mi chiede di risponderLe «sinceramente») che il peccato sia qualcosa di più serio, di molto più serio, che queste futilità.

Ma allora: che cos’è il peccato? Vede quanto è difficile rispondere alla Sua domanda, pure così elementare, ma anche così importante per la nostra fede. La Sua lettera, comunque, ha il merito di sollevare un problema di prima grandezza: l’eclissi moderna della coscienza del peccato. È vero che oggi non si sa più che cosa sia peccato – una parola diventata per molti priva di senso perché priva di contenuto. Un tempo questa parola impressionava, spaventava e sovente angosciava le anime; oggi lascia la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei, e forse anche noi, abbastanza tranquilli o indifferenti. Non ci inquieta più, non ci mette più in allarme o in crisi, dobbiamo anzi fare uno sforzo per prenderla sul serio, come merita. Difatti, come si può ancora sapere che cos’è salvezza, se non si sa più che cos’è peccato? L’eclisse della coscienza del peccato può essere la spia di un’altra eclisse, ancora più grave: quella della salvezza. Ora, il fatto che nel nostro tempo la parola «peccato» sia diventata inconsistente e si sia come svaporata è tanto più sorprendente in quanto proprio la nostra generazione è stata ed è testimone (e complice) di una misura, per così dire, fuori misura di orrori, quindi appunto di peccato, se è vero, come è -vero, che il secolo che sta alle nostre spalle ha superato in crimini, efferatezze ed abomini tutti i secoli precedenti. Non possiamo certo dire che non sappiamo più che cosa sia peccato perché non lo vediamo in giro. AI contrario, lo vediamo dilagare, ma paradossalmente più cresce lo spettacolo del male nelle sue mille forme, più diminuisce la coscienza del peccato. Non basta esserne circondati e quasi assediati, per essere «convinti di peccato» come dice Gesù (Giovanni 8, 46). Per ricuperare la coscienza del peccato occorre ricuperare la coscienza e conoscenza di Dio, della sua Legge e della sua Parola e vedere nel male che dilaga una disubbidienza alla Parola di Dio e una trasgressione della sua Legge. Ma qual è questa Legge? Qual è questa Parola?

Lei, cara Lettrice, per rispondere a questa domanda e quindi individuare con chiarezza assoluta che cosa sia peccato si è messa su una china scivolosa: quella di citare un versetto della Bibbia. Questo metodo, adoperato da molti cristiani, secondo me non ci aiuta, anzi ci caccia in un labirinto dal quale non si esce. Lei mi cita Levitico 20,13 e ne deduce, ovviamente, che l’omosessualità è un peccato abominevole. E io Le cito Levitico 24,16: «Chi bestemmia il nome dell’Eterno dovrà essere messo a morte; tutta la radunanza lo dovrà lapidare». Oppure Deuteronornio 21,18-21: «Quando un uomo ha un figlio ribelle che non ubbidisce alla voce né di suo padre né di sua madre (…) tutti gli uomini della sua città lo lapideranno sì che muoia». Che ne dice, cara Lettrice ? Come la mettiamo con questi peccati e le relative punizioni? Anche qui tutto è chiarissimo, ma Lei non è spaventata da questa chiarezza? Io sì. Ma allora è proprio vero che quello che Dio diceva al suo popolo tremila anni fa «vale anche oggi», come Lei scrive? Che cosa vale e che cosa non vale? Potrei, come Lei sa benissimo, citare molti altri versetti come quelli ora riportati, ma non lo faccio. Ne ho citati due solo per far vedere la via dei singoli versetti non è percorribile per stabilire che cosa sia veramente peccato. Anzi, è forse proprio percorrendo quella via che, paradossalmente, invece di prendere coscienza di che cosa sia veramente peccato, la si è persa.

Dicendo questo non mi voglio sottrarre alla sua domanda specifica: Lei mi chiede di dirLe «sinceramente» se l’omosessualità sia peccato, oppure no. Le dirò «sinceramente» che, secondo me non lo è, anche se so benissimo che la Bibbia lo considera tale. Ma perché la Bibbia considera l’omosessualità un peccato? Perché gli autori biblici ritenevano che l’omosessualità fosse una scelta. Noi oggi sappiamo quello che gli autori biblici non sapevano e neppure lontanamente supponevano, e cioè che l’omosessualità non è una scelta, ma una condizione. E questo cambia tutto il discorso.

Ma allora, che dobbiamo dire e, soprattutto, fare? Che cosa è peccato? Qual è la Legge divina trasgredendo la quale si commette peccato? Risponderò in due tempi.
l) In primo luogo la Legge divina sono i Dieci Comandamenti dati da Dio al popolo attraverso Mosè. Trasgredirli è peccato. Ma si tratta dei Dieci comandamenti, e non dei diecimila precetti che abbiamo aggiunto attraverso i secoli. Si tratta, lo ripeto, del Decalogo, cioè di sole «dieci parole» di Dio. Dio non è chiacchierone come noi.
2) In secondo luogo, sappiamo tutti che Gesù ha dato due soli comandamenti, che poi in realtà ne costituiscono uno solo: amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo come noi stessi. Ed ha precisato: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge ed i profeti» (Matteo 22, 40). L’apostolo Paolo dice la stessa cosa: «Chi ama il prossimo ha adempiuto la legge» (Romani 13, 8). E qui giungiamo al nocciolo della questione. Alla domanda: che cos’è peccato? Kierkegaard rispondeva così: «Il contrario del peccato non è la virtù, ma la fede». Il peccato è l’idolatria. La nostra città, cioè la nostra civiltà, è come l’antica Atene, «piena di idoli» (Atti 17, 16). Ma il peccato non è solo adorare altre divinità anziché il Dio di Abramo, dì Isacco, di Giacobbe e di Gesù. È peccato anche la mancanza di amore. Chi non ama, pecca. Il peccato è non amare. Chi invece ama, dimora nell’amore, «e chi dimora nell’amore, dimora in Dio, e Dio dimora in lui» (I Giovanni 4, 16).